giovedì 12 febbraio 2015

IL GRAFENE
nuovo materiale

Cosa è?  un materiale costituito da un unico strato di atomi di carbonio. Ha la resistenza del diamante e la flessibilità della plastica.

La scoperta. È stato scoperto nel 2004 dai due fisici Andre Geim e Konstantin Novoselov dell’università di Manchester che nel 2010 hanno preso il premio Nobel.

La struttura. Gli atomi si dispongono in celle bidimensionali esagonali formando una struttura a nido d’ape che lo rende uno dei materiali più sottili al mondo.

Le caratteristiche. Coniuga la peculiarità di essere un materiale estremamente  leggero con eccezionali proprietà di resistenza meccanica.

Alcune prime utilizzazioni:
-       Come conduttore. È duecento volte più forte dell’acciaio, come conduttore di elettricità e di calore funziona meglio del rame.
-       Per i transistor. È talmente sottile che può essere usato per transistor a  bassissimo consumo per cellulari e palmari da ricaricare solo una volta al mese.
-       Nei computer può essere utilizzato per realizzare microprocessori ad altissima velocità che manderanno in pensione quelli al silicio.

-        Celle solari. Per la struttura monoatomica che lo rende trasparente e la grande conducibilità termica può essere impiegato nei pannelli fotovoltaici.                

Gens Mea (Alberi Genealogici di famiglie della Sicilia Centrale)

Prefazione

         Questa ricerca nasce dalla semplice constatazione che ogni persona, anche di età avanzata, con i propri ricordi non riesce ad andare oltre i suoi bisnonni, cioè  oltre le tre ultime generazioni  che l’ hanno preceduto. Il passaggio da una generazione all’altra si compie intorno ai 30 anni. Si può perciò ritenere che, con le dovute approssimazioni, il ricordo rivolto ai nostri ascendenti  non va oltre il secolo, tranne che si tratti di persone eccezionali che, nel bene o nel male, riescano ad entrare in atti, scritture, memorie a vario titolo e/o documenti noti ad una moltitudine di persone, insomma nella storia. Ma anche allora non è detto che sia chiaro il loro collegamento con i propri discendenti. In Corsica, ad esempio,  sono in troppi a dirsi discendenti di Garibaldi o addirittura di Napoleone Bonaparte.
         Le persone coinvolte in questo volume sono circa ottomila (discendenti e loro coniugi), distribuiti in un numero di generazioni che va, in gran parte, attorno a sette. A partire dall’anno 2013 e andando a ritroso nel tempo, nella mia ricerca,  sono arrivato non oltre l’anno 1690. Negli anni futuri i discendenti degli inclusi in questi novantasei alberi genealogici potranno risalire ben oltre le tre generazioni di cui dicevo prima e, se avranno la solerzia di aggiornare il proprio albero, avranno il merito di tramandare ai propri discendenti il ricordo dei propri avi.
         Conoscere la propria genealogia contribuisce a rafforzare la propria identità.
         L’evangelista Matteo nell’iniziare il suo Vangelo fa una lunga genealogia di Gesù, tripartita in gruppi di quattordici generazioni (in tutto quarantadue generazioni) che risalgono da Gesù ad Abramo (dal quale inizia la storia di Israele). Applicando alle quarantadue generazioni la durata di trenta anni per ciascuna, ricaviamo che Gesù venne dopo 1260 anni da Abramo. Ovviamente è probabile che tale calcolo sia fatto in difetto perché possiamo presumere che la durata della vita sia andata cambiando nel corso del tempo. Anche nella genealogia di Gesù troviamo donne non israelite e, a volte, non proprio virtuose.
         Cercando in alcune biblioteche ed in internet (lingua italiana), non ho trovato libri o indizi che conducano a ricerche, nel mare delle genealogie, che assomiglino al presente volume.  Mi è stato di aiuto l’essere partito dall’albero genealogico della mia famiglia (albero b2), allargandomi gradualmente di ramo in ramo, di generazione in generazione. Questo è un libro che non va letto pagina dopo pagina, ma  soltanto consultato da chi vuole conoscere i rapporti tra i censiti in un albero. È anche possibile  risalire ad altre persone inserite in alberi diversi (attraverso i rimandi ai detti  alberi – riportati nei rettangoli gialli).
         Per compilare quest’opera ho chiesto notizie a centinaia di persone (residenti in tante parti del mondo) mandando in genere ad esse copie dell’albero su cui stavo lavorando e chiedendo integrazioni, correzioni e dati anagrafici. La gran parte di essi mi ha risposto. Spesso mi hanno ringraziato dicendomi che attraverso l’albero avevano avuto la gioia di scoprire l’esistenza di parenti con i quali subito si sono messi in contatto. Chissà  se in futuro sarà ancora possibile fare una simile ricerca sia perché la dispersione delle persone nel mondo sarà sempre maggiore sia anche per l’entrata in vigore, in Italia, della legge che dà ai genitori la possibilità di utilizzare come cognome dei figli sia il cognome della madre che quello del padre oppure ambedue insieme.
         Ho constatato che il mio lavoro serviva anche ad aggregare le famiglie dando ai rispettivi membri la consapevolezza della comune appartenenza.
         Oggi siamo sempre più investiti dalla globalizzazione che produce l’effetto di ridurre le distanze ed incrementa le comunicazioni. In conseguenza vedremo i nostri figli andare via dal comune in cui sono nati e cercare lavoro altrove,  trasferendosi in qualsiasi parte del mondo. Già oggi notiamo che coloro che si sono trasferiti permanentemente all’estero  hanno allentato i rapporti con i parenti e, se non tornano spesso al comune di origine, finiscono col non conoscere più i parenti lontani. Perdono cioè la consapevolezza della propria identità, come fossero foglie staccate dall’albero familiare sotto l’azione del vento della globalizzazione.
         Dal punto di vista culturale, l’uomo sente il bisogno di essere consapevole della propria identità, che è costituita da tanti elementi: la famiglia di appartenenza, il territorio di provenienza, la lingua parlata, la religione professata ecc. Tante volte abbiamo potuto constatare che le persone emigrate in America agli inizi del secolo scorso, cercano ancora di conoscere i propri parenti, di chiarire la propria genealogia  e spesso, venendo in Italia, li cercano (anche andando a chiedere notizie negli uffici anagrafici del comune o nelle parrocchie) e stabiliscono con loro nuove relazioni. È probabile che questo volume sarà gradito a molti emigrati. Tanti hanno ricercato i legami o le radici che collegano il popolo americano di origine italiana con la nostra terra attraverso gli archivi di Ellis Island[1] (https://www.ellisisland.org/).
         La compilazione di questi alberi genealogici mi ha dato modo di rendermi conto di alcuni eventi verificatisi nel trascorrere degli anni. È cambiato il numero di figli delle coppie di sposi. Prima  era  più alto, normalmente si attestava attorno a quattro e spesso, specialmente a Milena, si andava oltre dieci. Eppure la povertà era maggiore. Col passare degli anni man mano che l’occupazione si è spostata dall’agricoltura all’industria ed ai servizi ed il reddito è andato aumentando, il numero dei figli è sceso attestandosi ad uno o due figli per coppia. Forse per una modificazione culturale e una maggiore consapevolezza genitoriale. Chissà!
         La coppia prima era costituita normalmente da persone sposate in chiesa, oggi il legame matrimoniale si è allentato. Spesso si convive. Certamente ha influito sia l’affacciarsi della donna al mercato del lavoro,  sia la crescente scristianizzazione della nostra società.
         Anche i nomi che si danno ai figli sono cambiati. Prima si rispettava di più  l’usanza di dare ai figli il nome dei propri genitori. Io mi chiamo Stefano Diprima perché mio nonno si chiamava Stefano Diprima. Tale usanza è antichissima e ne abbiamo traccia anche nei Vangeli. L’evangelista Luca riferisce che l’arcangelo Gabriele annunziò a Zaccaria, marito di Elisabetta, che avrebbe avuto un figlio e lo doveva chiamare Giovanni. Maturò il tempo ed Elisabetta partorì. «I vicini ed i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia e si rallegravano con lei. Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre Zaccaria. Ma sua madre intervenne: “No, si chiamerà Giovanni”. Le dissero: “Non c’è nessuno nella tua parentela che si chiami con questo nome”». Al bambino fu dato nome Giovanni perché anche Zaccaria lo volle.
         Oggi sono in tanti a non sentirsi vincolati dall’antica usanza e scelgono nomi di personaggi celebrati dai media, sentiti in televisione o nelle letture di romanzi o ancora nei film. Accade anche che i cattolici, nella scelta del nome di battesimo,  non  rispettino il Codice di Diritto Canonico che dice «I genitori, i padrini e il parroco abbiano cura che non venga imposto un nome estraneo al senso cristiano»(Can.855).
         Alla base di ogni albero genealogico sta la persona. L’albero definisce il rapporto di parentela tra le persone. L’uomo è per sua natura un essere “sociale” cioè collegato ad altre persone. Detto collegamento può essere di varia natura: amicizia, conoscenza, inimicizia, parentado ecc..  Sono convinto che il collegamento più importante è l’amicizia . Il patrimonio più importante che ognuno di noi ha è costituito dalle relazioni amicali che possiede e che vorrebbe trasmettere ai propri figli. La natura aiuta l’uomo a relazionarsi con gli altri uomini sulla base della propria libertà. La parentela non è altro che un suggerimento che la natura dà all’uomo sulla scelta dei primi possibili amici. L’uomo,  usando la propria libertà, può accoglierlo, respingerlo o semplicemente ignorarlo. Certo però è che la famiglia è l’unico luogo in cui il singolo trova normalmente e gratuitamente rifugio ed aiuto. Dal bambino all’adulto, tutti i suoi bisogni trovano risposta in famiglia. Nelle nostre società progredite, la risposta ad alcuni bisogni è oggi passata dalla famiglia alla società. Penso alle cure di malattie gravi, alla istruzione, alla sicurezza ecc.. Ma la maggiore serenità la trovano quelle persone che hanno cercato nei parenti più vicini i loro migliori amici.
         È questo l’augurio che faccio al lettore.
                                                            
                                                                      Stefano Diprima




[1]           Isola alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York. Antico arsenale militare, dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, è stata il principale punto d’ingresso per gli emigranti che sbarcavano negli Stati Uniti. Attualmente l’edificio ospita l’Ellis Island Immigrazion Museum.

venerdì 2 gennaio 2015

La prigionia in Austria di mio padre nella guerra 1915-'18

Diprima Giuseppe
mio padre prigioniero
in Austria nella guerra 1915-1918.

Diprima Giuseppe di Stefano e di Montalto Monella Calogera, nato a Sutera il 4 ottobre 1898.
Partecipò alla prima grande guerra 1915-1918. Fu chiamato alle armi il 1 marzo 1917 (aveva 18 anni e 5mesi) e finì il servizio militare il 1 luglio 1920 (aveva  20 anni e 9 mesi).
Combatté sulle Alpi da mitragliere.
Fu fatto prigioniero e portato nel campo di concentramento a presso Gratz
La vita nel campo di concentramento fu tremenda sia per la dura disciplina sia per fame (era una fortuna trovare una vecchia scarpa da masticare).
Mio padre mi raccontava che ogni giorno i prigionieri erano schierati in un grande spiazzo. Un ufficiale austriaco gridava dei nomi di prigionieri e questi dovevano fare un passo avanti e l’ufficiale  assegnava loro una punizione. La più grave consisteva nell’essere legati  fortemente ad uno dei pali di ferro situati nello spiazzo. Bisognava stare con la testa alta e sotto il mento veniva posta una baionetta. I più puniti in genere erano i russi.
Ricordo ancora due strofe della canzone che i nostri prigionieri cantavano di nascosto e che mio padre spesso cantava a Sutera e volle che l’imparassi:

Finalmente è finita la guerra
che l’Europa ha ben dissanguata.
Siam tornati all’italica terra,
terminato è il nostro soffrir.

Pace, pace tu hai schiuso la via
Per tornare al suolo d’Italia,
Tu ci hai tolto a quella canaglia
Che tanto tempo ci ha fatto languir.

Austriaci  vil  razza  dannata,
gente infame vile e senza cuore,
vendicaste l’Italia e il valore
col martirio dei suoi prigionieri.

Per otto giorni ci daste un sol pane,
con un rangio da rifiutar i cani,
siete stati con noi disumani
per voi l’odio sempre sarà.

Al lavoro ci avete portato
peggio ancora di schiavi venduti,
a piedi scalzi, affamati, abbattuti
senza aver compassione e pietà.

Innocenti ci avete puniti
con i ferri, col palo e prigione,
di vigliacchi non che paragone
far soffrire così i prigionier.

Ed il palo martirio crudele,
con le mani di dietro legate,
sulla punta dei piedi sollevati,
per due ore durava il martir.

Abbiam visto, ne una sol volta,
trecento russi al palo maledetto,
baionette puntate sul petto,
chi si muove ferito sarà.

Assassini di bassa galera
austriaci feroci e bestiali,
ci trattaste al par di animali,
maledetta sì razza brutal.
                                  
                                   Cara patria abbiam fatto ritorno,
                       bella Italia, civil nazione,
                       e dell’Austria la fame e il bastone

                       i tuoi figli non soffrono più.

Un giorno mentre tutti i prigionieri del campo erano schierati, venne chiamato: Giuseppe Diprima. Mio padre, tremando fece un passo avanti. Un ufficiale austriaco lo rassicurò che non si trattava di una punizione e lo condusse nell’ufficio del comandante del campo dove era anche presente un alto ufficiale medico austriaco, il barone Purgstall, proprietario di un castello a Feldbach (vedi in calce la foto) e padre di una ragazza diciottenne la baronessa Olga. Il barone Purgstall aveva ottenuto dalle superiori autorità di prelevare dal campo di concentramento un prigioniero di buon carattere e di portarselo al castello per proteggere la baronessina Olga.
Era la fine delle sofferenze. Nel Castello di Feldbach fu presentato alla baronessa, gli fu assegnata una stanzetta posta al primo piano e situata sopra quella della ragazza. La sera stessa l’ufficiale medico partì e mio padre rimase con la ragazza che era in grado di difendersi perché sapeva usare bene un fucile.
Dopo la cena mio padre salì nella sua stanza. La ragazza chiuse la sua porta, vi mise dietro tutti i mobili che potè spostare e si coricò mettendosi nel letto il fucile carico.[1]
Ma non riusciva a dormire perché sentiva che mio padre camminava nella sua stanza. Poi lo sentì scendere per la scala e bussare alla sua porta. Non volendo mostrare paura, la ragazza aprì di poco la porta e gli chiese qualcosa. Mio padre attraverso la fessura della porta le porse una catenina d’oro con una medaglia della Madonna[2]. La ragazza capì  che mio padre le chiedeva di non avere paura e glie lo stava giurando sulla Madonna. Aprì la porta lo fece entrare, chiese il suo aiuto per mettere i mobili al loro posto.
Cominciò così un rapporto di grande fiducia che consentì anche a mio padre di portare qualcosa da mangiare ai prigionieri suoi amici rimasti nel campo.
Qualche volta mio padre e la baronessa andavano a caccia.  Molti anni dopo, la baronessa ormai vecchia, mi raccontò che una  volta lei, andata a caccia con mio padre, uccise un daino e mio padre se lo caricò sulle spalle ed attraversò Feldbach cantando l’inno nazionale italiano mentre lei lo pregava di smettere: “Giuseppe non cantare il tuo inno nazionale, potrebbero arrestarti”. A ricordo di quella battuta di caccia, la baronessa si fece costruire una spilla d’argento con incastonato un dente del daino. La spilla mi è stata, poi,  regalata dalla baronessa ed è fotografata più sotto.
Da Feldbach mio padre ha potuto mandare, tramite la Croce Rossa, della posta alla sua famiglia in Sicilia. La posta in arrivo dall’Austria veniva revisionata a Palermo da un gruppo di militari tra cui era il fratello maggiore, Onofrio, di mio padre che aggiungeva anche la sua firma e faceva proseguire la lettera per Sutera.
Mio padre tornò dall’Austria in Italia e nel marzo 1920 ha ricevuto una lettera della baronessa  Olga che riporto di seguito.




[1] Tutto ciò mi è stato raccontato dalla baronessa che il sono andato a trovare dopo tantissimi anni.
[2] Era la catenina che mia nonna gli aveva messo al collo all’atto di partire per la guerra sperando che la Madonna lo protegesse.
1920 Lettera della baronessa Olga a Giuseppe Diprima pag. 1

1920 Lettera della baronessa Olga a Giuseppe Diprima pag. 2

Spilla in argento con i denti del daino ucciso dalla baronessa Olga

 Castello di Beldbach


Da sinistra: Mia moglie Lillina Randazzo e la baronessa Olga Pulgstall a Feldbach nel 1969

Da sinistra: Mia moglie Lillina Randazzo, la baronessa Olga Pulgstall, Stefano Diprima ed Hasi Salmieri a Feldbach nel 1969

Da sinistra: Stefano Diprima e la baronessa Olga Pulgstall a Feldbach nel 1969

Da sinistra: Mia moglie Lillina Randazzo, la baronessa Olga Pulgstall ed Hasi Salmieri a Feldbach nel 1969

Da sinistra: Mia moglie Lillina Randazzo l'ing. Pasquale Salmieri, la baronessa Olga Pulgstall, Stefano Diprima ed Hasi Salmieri a Feldbach  nel 1969

La baronessa Olga Pulgstall a Feldbach nel 1969

Da sinistra: Stefano Diprima, mia moglie Lillina Randazzo e la baronessa Olga Pulgstall a Feldbach nel 1969